Mirò! Poesia e Luce in mostra al Chiostro del Bramante a Roma


La riconciliazione con la natura che abbraccia, in religioso silenzio, chiunque decida di stabilirsi nel suo ventre materno, unisce gli artisti più disparati, da Georgia O'Keeffe, che trascorre gli ultimi anni della sua vita a Taos, al pop surrealista Todd Schorr che si rifugia nel Cunnecticut, a Mirò che si stabilisce a Maiorca nel '56 ritrovando così il legame con le sue origini. Lo stesso artista dichiarerà di sentirsi come una pianta, lì vi sono le sue radici.

Il legame con la terra natia è sempre stato un leit motiv che ha scandito le opere e fatto da cornice alla vita di Mirò. Questo legame si è rafforzato in seguito al matrimonio, nel 1929,  con una ragazza dell'isola, Pilar Juncosa. Tuttavia è solo dopo il suo trasferimento a Maiorca nel '56, tra le mura dello studio fatto costruire dall'architetto e amico Josep Lluis Sert, che Mirò viene a contatto con l'anima e il cuore dei suoi dipinti. Sarà qui che realizzerà quadri fecondi ("il quadro deve essere fecondo, deve far nascere il mondo") solo dopo aver aver fatto un duro lavoro di autocritica su se stesso.


Autocritica che non risparmia atteggiamenti, potremo dire, estremi come rompere tele e rifiutare molti lavori precedenti. A Maiorca Mirò verrà in contatto con la luce e i colori dell'isola ma anche con la terra e il mare, con gli elementi naturali che caratterizzano l'isola. Inizia così un periodo di analisi su ciò che è stato il suo lavoro fino a quel momento a cui fa seguito un uso del colore e della tela istintivo e gestuale. La gestualità, il rapporto con dita, mani e piedi diventa fondamentale per le opere di Mirò che caratterizzano quest'ultimo trentennio della sua attività.

Strizzare il colore sulla tela e lavorarlo come se stesse suonando il piano; questo è ciò che afferma l'artista durante un'intervista e difatti osservare le opere, frutto di questi impulsi iniziali e istintivi che si tramutano in tele a forte impatto visivo ed emotivo, è un piacere per lo spirito e per la mente. Poesia del 1966, Uccello del 1972, Donna della notte del 1973, sono solo alcune delle opere da cui emerge un'aggressività plastica e una volontà (innata e totalmente istintiva) di far emergere gli stati più reconditi di ciò che è celato dentro lui (basti pensare alla rappresentazioni che fa del padre). 

Gli ultimi trent'anni della carriera di Mirò sono volti ad una ricerca e ad un lavoro fecondo  su se stesso che porta ad una sconfinata creatività, a un mondo immaginario e fantastico abitato dai personaggi che animano i paesaggi rappresentati. Da una forza e un'aggressività plastica che potrebbe avvicinarlo al dadaismo, si passa alla gestualità propria dell'espressionismo. Eppure non si può dire che l'arte di Mirò appartenga a questa o a quella corrente artistica o movimento. L'arte di Mirò è l'espressione di un momento di libertà assoluta, libertà che risponde a leggi personali, che non hanno vere e proprie ragioni come il numero delle tele che deve essere sempre pari (i numeri dispari gli mettono tristezza). 

C'è un amore spasmodico e un legame viscerale con i colori e con le tele, un attaccamento primordiale alla sua terra, al corpo e a tutto ciò che si può fare attraverso il corpo. L'arte che esce dal corpo stesso, l'arte come proseguimento dell'artista. Penso anche alle sue sculture come Donna del 1967, Uccello appollaiato su albero del 1970 ed Equilibrista del 1969, argilla modellata con le mani, creazioni che partono da un'idea e che prendono forma e poi colore.

A Mirò è dedicata la mostra Poesia e Luce al Chiostro del Bramante a Roma fino al 10 giugno, realizzata proprio sulla base di quest'ultimo trentennio che l'artista ha trascorso a Maiorca. "Maiorca è la poesia e la luce" afferma Mirò nel '57 e le opere esposte rappresentano il lungo percorso che ha portato all'esternazione della luce e della poesia nelle sue opere. Tele, sculture, oggetti proveniente dal suo studio, tutto ciò ricostruisce parte della vita di un grande e inimitabile artista. 

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